12.11.2020 – PAMELA SALVATORI

Se abbiamo avuto speranza in Cristo solo in questa vita siamo da compiangere più di tutti gli altri (1Cor 15,19)

Senza la viva speranza nella vita eterna, saldamente radicata nella Resurrezione di Cristo, è impossibile condurre una vita autenticamente cristiana. Ma i cristiani dei nostri giorni conoscono il significato e i contenuti dell’espressione “vita eterna”? Soprattutto, se ne parla abbastanza nella catechesi? Purtroppo, talvolta, si ha l’impressione che tale fondamentale consapevolezza si sia spenta, in modo preoccupante, persino tra i Battezzati. E non sembra si tratti di una impressione soggettiva. Di fatto, il diffondersi tra i cristiani di serie perplessità intorno alle verità di fede concernenti le realtà ultime era stata avvertita già nel 1979 dalla Sacra Congregazione della Dottrina della Fede, quando compose una Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia, con cui intendeva tutelare l’autenticità e l’integrità della fede. Oltre un decennio più tardi tornava su alcune problematiche a riguardo la Commissione Teologica Internazionale, con un documento dal titolo Problemi attuali di escatologia. Era il 1990. In tali occasioni, l’accento venne posto su alcune importanti verità, concernenti quelli che chiamiamo i “novissimi”. Si direbbe che la realtà della morte sia una delle paure più grandi del nostro tempo, fortemente segnato dal secolarismo e dal materialismo, al punto che appare urgente recuperarne l’autentica visione cristiana. Infatti, in una prospettiva di fede, pur continuando a suscitare un certo timore naturale inevitabile, la morte acquista un senso completamente nuovo, in virtù della vittoria di Cristo sul peccato, sul demonio e sulla morte stessa. Il cristiano sa che si vive e si muore una sola volta, per entrare nella definitiva comunione con la Trinità in Cristo, comunione di gloria, di piena felicità e perfetta beatitudine (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica 1010-1014), comunione che nella grazia inizia già in questo mondo, per realizzarsi in pienezza nella gloria del Cielo. E, soprattutto, il fedele non ignora che è proprio lui a scegliere il suo destino eterno.

Per chi muore in uno stato di amicizia con Dio, ossia senza quei peccati detti mortali perché causano la dannazione eterna o “seconda morte” (contrari ai Dieci Comandamenti/Dieci Parole/Decalogo), la beatitudine eterna è certezza, tuttavia, è possibile che egli debba passare per uno stato previo di purificazione. Si tratta del “Purgatorio”, dottrina formulata soprattutto nei Concili di Firenze (1439-45) e di Trento (1545-63), ma che spesso sembra ignorata ai nostri giorni. Eppure, non si tratta di una leggenda o di chissà quale tradizione fantastica, e nell’insinuare tali sospetti nei cuori dei fedeli si veda pure l’inganno sottile del “serpente”, perché la verità è che assieme all’Inferno, inteso come privazione totale della visione beatifica, e al Paradiso, l’esistenza del Purgatorio trova i suoi fondamenti nella Sacre Scritture e nella Tradizione viva della Chiesa. Dunque, è parte integrante della fede cristiana. Verità intramontabile. Si precisa, però, che né le immagini contenute nelle Scritture, né la teologia sono in grado di fornire una rappresentazione esaustiva dell’aldilà, ed è pertanto necessario imparare a cogliere il senso profondo di queste immagini, evitando, tra l’altro, di attenuarle eccessivamente.

Credere nella vita eterna, con tutte le verità ad essa annesse, non è affatto irrilevante per l’uomo di ogni epoca, perché, come afferma san Paolo, «se abbiamo avuto speranza in Cristo solo in questa vita siamo da compiangere più di tutti gli altri» (1Cor 15,19). È, dunque, necessario vivere animati da una autentica speranza cristiana, che mentre eleva il cuore al cielo rende operosi sulla terra. Ma tale speranza non può darsi dove manca la conoscenza e la fede nelle verità di cui si sta parlando.

Ogni uomo è chiamato alla piena comunione con Dio Trinità, è il suo destino di santità fin dalla nascita: se raggiunta essa è gloria, se persa è dannazione. Dipende dalla sua scelta rispondere o meno a questa vocazione, conservare e vivere la grazia battesimale, oppure rifiutarla percorrendo un cammino di perdizione lontano da Dio, quindi, consapevolmente o meno, al seguito del demonio. Infatti, anche dopo la Redenzione compiuta da Gesù sulla Croce, resta la possibilità di accettare o rifiutare la salvezza, per questo le scelte compiute sulla terra decidono del proprio destino eterno, di gloria o di condanna. Di qui tutta la serietà della vita umana, la grandezza della libertà e la responsabilità che ne deriva.

L’inferno, dunque, è una possibilità reale, così il Paradiso e il Purgatorio, che spesso precede l’accesso alla gloria (vedi CDF, Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia, I,10). Quando la Chiesa parla della visione beatifica delle anime elette afferma la necessità che tali anime giungano all’incontro con il Padre senza macchia. Significa, che, talvolta, può essere necessaria una purificazione dopo la morte, per l’accesso alla visione beatifica. Tuttavia, bisogna guardarsi dall’errore di figurarsi lo stato del Purgatorio alla pari del castigo dei dannati o troppo simile ad esso. Per comprendere la differenza tra le due condizioni basti pensare che nello stato di condanna domina l’avversione a Dio, e l’uomo è consapevole della sua separazione definitiva da Lui, senza rimedio, mentre in quello di purificazione al centro vi è l’amore di Cristo, del quale l’anima è ancor più cosciente dopo la morte, e nel quale essa è tutta centrata. L’anima purgante ama Dio profondamente e si purifica nell’amore, nel desiderio di possederLo in pienezza, e nella sofferenza di non poter ancora godere di Lui.

Secondo san Giovanni della Croce è lo Spirito Santo che durante la vita terrena, e quando necessario anche dopo la morte, purifica l’anima con una fiamma d’amore viva per rendere perfetta la sua carità. L’idea di un fuoco purificatore appartiene alla Tradizione della Chiesa e si richiama ad alcuni passi delle Sacre Scritture (cfr. CCC 1031).

In ultimo, a partire da quanto detto si può dedurre l’importanza della preghiera di suffragio per i defunti, vivamente raccomandata dalla Chiesa. Tale pratica trova il suo fondamento nel Secondo libro dei Maccabei (2Mac 12,46) ed ha un’antichissima tradizione. La Chiesa crede che le preghiere dei vivi aiutino le anime dei defunti a purificarsi, in virtù della “comunione dei santi”, della presenza vivificante dell’unico Spirito Santo nella Chiesa pellegrina sulla terra, nella la Chiesa gloriosa del cielo e, appunto, nella Chiesa purgante. Per questo si viene esortati alle opere di carità e di penitenza, oltreché alla preghiera, e all’acquisto delle indulgenze in suffragio di coloro che sono morti (cfr. CCC 1032).

È importante che non sia oscurata nei cristiani la consapevolezza che il defunto può aver bisogno di purificazione e di preghiere, soprattutto nella celebrazione delle liturgie esequiali, e che i fedeli in terra possono intercedere in loro favore. In tali occasioni la Chiesa prega il Signore di accogliere l’anima del fedele, rinata in Cristo nel Battesimo e debitamente purificata, nella schiera dei santi del cielo, in attesa che il corpo risorga alla venuta finale di Cristo (Parusia). Quando chiede a Dio di perdonare al defunto i suoi peccati si riferisce alle vestigia dei peccati mortali già perdonati in quanto alla colpa, ossia di quei peccati di cui l’uomo si era pentito quando era viveva sulla terra. Inoltre, per tutte le anime purganti essa prega e offre il Sacrificio Eucaristico in loro suffragio, e così mentre aiuta i defunti a progredire nella loro purificazione, consola i fedeli che in terra ne piangono la scomparsa.

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